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Capitali reticolari e sindacalismo settentrionale. Non lasciamo alla Lega decidere cosa è federalismo

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– La decentralizzazione dei ministeri sembrerebbe rappresentare il prossimo obiettivo politico di una Lega Nord che, stando ad alcune dichiarazioni, già considererebbe raggiunto il traguardo del federalismo fiscale. E’ difficile, tuttavia, vedere la “capitale reticolare” proposta da Calderoli come un passo avanti nell’ottica federalista o comunque come un opportuno complemento al processo di devoluzione. Di per sé, infatti, avere i ministeri sparpagliati a Milano, a Napoli o a Palermo non andrebbe a modificare di una virgola il carattere centralista delle scelte politiche e l’equilibrio tra le sfere di competenza del governo nazionale e delle istituzioni locali. La questione “federalista” non riguarda, infatti, dove si trova geograficamente colui che prende una decisione, bensì qual è l’area territoriale di applicazione di questa decisione. Non è rilevante se una certa questione è discussa a Milano o a Reggio Calabria, a Roma o a Palermo – quello che conta è se essa resta o meno responsabilità del potere centrale.

L’idea del nostro “ministro per la semplificazione” (sic!) pone indubbi problemi di efficienza come Libertiamo ha già sottolineato qualche giorno fa. Al di là dei prevedibili costi di riunioni e trasferta, istanziare nuovi sedi ministerali in varie parti d’Italia significherebbe probabilmente un’ondata di assunzioni pubbliche a fronte del quasi certo mantenimento di tutto il personale romano, del quale è arduo immaginare il trasferimento, men che meno il licenziamento.
C’è tuttavia un’altra ragione per la quale dubitare del concetto di “capitale reticolare” e che dovrebbe stare a cuore soprattutto ai federalisti. E’ il fatto che la decentralizzazione delle istituzioni “centraliste” fornirebbe l’illusione che tutti a nord, come al sud possano beneficiare del “dividendo” della burocrazia statale, in termini di posti di lavoro pubblici, di favori e di prebende.
Si tratterebbe, se ci si pensa, di un esito tale da indebolire la posizione di chi desidera una vera devoluzione di poteri dal centro alla periferia. In effetti il “centralismo distribuito” andrebbe a rimuovere il fattore simbolico di più immediato richiamo che finora i sostenitori del federalismo hanno avuto a disposizione – il fatto che i soldi fossero sottratti dalla periferia per finire a Roma.
E’ stata proprio la contrapposizione tra il Nord e Roma, così schematica e così comprensibile, che in questi anni ha garantito alle rivendicazioni territoriali un’agibilità politica ben maggiore di quelle per le quali non era invece possibile determinare in modo altrettanto netto le due polarità del conflitto. La stessa vendibilità delle tesi liberiste e antistataliste è spesso compromessa dal fatto che ogni cittadino è allo stesso tempo un po’ beneficiario e un po’ vittima delle regolamentazioni e dell’assistenzialismo.
In definitiva la compartecipazione spartitoria alla cuccagna centrale rischia solamente di ridurre la percezione che la gente ha del peso del governo centrale e di conseguenza di ridurre la richiesta di federalismo.

Quanto sopra non sembra essere, però, una vera preoccupazione del Carroccio che recentemente è apparsa più interessata ad occupare (e laddove possibile a moltiplicare) le caselle del potere politico ed economico settentrionale piuttosto che a battersi per un concetto di federalismo effettivo e rigoroso. La cifra della politica leghista non è del resto più rappresentata dalle rivendicazioni economiche, fiscali ed antiburocratiche che l’avevano connotata in passato, ma prevalgono al contrario atteggiamenti corporativi e suggestioni neoassistenziali.  Al tempo stesso sui social issues Via Bellerio si è ormai arroccata su posizioni di assolutismo culturale ed etico che mal si coniugano con un principio fondamentale dell’organizzazione federale quale l’accettazione della limitatezza intrinseca di ogni decisione politica.

E’ per questa ragione che sarebbe un errore molto grave per questo paese lasciare la difesa del federalismo alla sola Lega Nord. Ciò significherebbe, infatti, essenzialmente due cose.
La prima è che la via italiana al federalismo si declini esclusivamente nei termini in cui lo concepisce il partito di Bossi.
La seconda è che la contrapposizione (comunque motivata) alle politiche  leghiste si  traduca  automaticamente in opposizione al federalismo.

Il Popolo della Libertà pare avere optato finora per un sostanziale agnosticismo sulla questione federalista. Essendo interessato alla solidità del rapporto con il Carroccio, il PDL finisce per considerare il federalismo come il prezzo da pagare a questa alleanza più che come un obiettivo politico in sé. Di conseguenza non sembra nutrire un particolare interesse a sviluppare un’elaborazione autonoma sull’argomento. Se il federalismo serve per ottenere il sostegno della Lega, allora è chiaro che il federalismo deve essere quello della Lega. Certo, è utile temperarlo perché va fatto digerire al Sud, ma si tratta semplicemente di negoziare con Umberto Bossi sul terreno “quantitativo” – concedergli più o meno di quanto chiede. Pensare, invece, di proporre un modello di devoluzione “qualitativamente diverso” sarebbe tra l’inutile ed il controproducente, in quanto sarebbe visto dalla Lega come una sgradita invasione nel proprio territorio. Non stupisce, pertanto, che tra i tanti circoli, associazioni, movimenti e think-tanks che pur gravitano intorno al partito del premier non ce ne sia nessuno che si occupi significativamente della riforma federale dello Stato.

Il gruppo Futuro e Libertà, dal canto suo, è certamente più interessato del PDL ad aprire un rapporto di competizione con il partito di Bossi e per questo inevitabilmente si troverà prossimamente a dovere definire  i termini della propria differenza politica sulla questione del federalismo. In quest’ottica la scelta più agevole e scontata per il nuovo movimento di Fini sarebbe probabilmente quella di trasporre l’alterità nei confronti della Lega in una sostanziale ostilità al federalismo o per lo meno ad un federalismo troppo marcato. Si tratterebbe se ben ci si pensa di una scelta destinata anch’essa – tanto quanto l’indifferenza pidiellina – a conferire a Bossi la rappresentanza esclusiva dell’ideale federale.

Insomma federalismo è quello che dice Bossi. Se non vuoi stare dalla parte di Bossi, allora vuol dire che devi essere, se non contrario, per lo meno “prudente” nei confronti della trasformazione delle istituzioni in senso federale. Così a Futuro e Libertà basterebbe sostenere che la Lega sta andando “troppo oltre” nella battaglia per il federalismo e proporsi come elemento di temperamento e di moderazione all’interno della maggioranza – rivendicando conseguentemente come un successo ogni paletto messo a difesa dell’unità nazionale. Sarebbe una strategia redditizia in termini di comunicazione immediata, perché sufficientemente stilizzata e con un “mercato” elettorale certo, soprattutto al Sud.

C’è però una seconda opzione, meno semplificata e più ambiziosa, per chi si proponga di contendere il crescente spazio politico della Lega Nord ed è quella di contenderle al partito di Bossi la legittima titolarità delle istanze devoluzioniste, rilanciando quel concetto di federalismo liberale e competitivo che la Lega non sembra oggi più interessata ad affermare. Questo naturalmente imporrebbe di criticare in modo aperto gli aspetti disfunzionali del federalismo come si sta prefigurando con il rischio che si produca una proliferazione dei centri di spesa e dei posti di lavoro nell’apparato pubblico. Al tempo stesso, tuttavia, si tratterebbe di affermare che la riforma federale rappresenta una priorità strategica per il paese e che non si deve aver paura di premere l’acceleratore nel trasferimento verso il basso delle prerogative attualmente detenute dallo Stato centrale.

In questo senso risulterebbe più che fisiologico trovarsi a “scavalcare” la Lega sul terreno della devoluzione, mirando ad instaurare una competizione virtuosa tra le varie regioni sul terreno del fisco, del mercato del lavoro, della gestione del welfare e non ultimo delle questioni eticamente sensibili. E’ proprio questa vocazione “concorrenziale” del federalismo che può innescare in questo paese dinamiche di innovazione economica, facendo sì che l’insuccesso di alcune scelte politiche si possa effettivamente misurare sul successo relativo di altre.

Nei fatti la trasformazione della Lega dal partito “small government”, antitasse e fondamentalmente libertario che rappresentava negli anni ’90 al partito di gestione e di (sotto)governo di questi anni apre spazi di “concorrenza a destra” che meritano di essere sfruttati. Innanzitutto fornendo un’alternativa a quella prospettiva di sindacalismo territoriale che in questi anni si è declinata in tante forme – dalla salvaguardia nelle province, al soccorso al carrozzone Alitalia in nome di Malpensa, alla difesa di dazi e regolamentazioni in campo agricolo. Al suo posto dovrà essere sostenuta una visione basata su centri di spesa e di decisione ben definiti e su amministratori effettivamente responsabili nei confronti del loro elettorato. Un sistema trasparente in cui sia evidente la relazione tra tasse e servizi – in cui ogni spesa in più di un amministratore locale si traduca in un aumento delle imposte ed ogni risparmio in una loro riduzione.

Anche il tema del flusso economico redistributivo tra Settentrione e Meridione dovrebbe essere l’oggetto di una riflessione senza pregiudizi. E’ una questione che in passato per anni è stata al centro della propaganda politica della Carroccio, ma che di fatto è oggi solo marginalmente toccata dalla riforma che pur va sotto il nome di  “federalismo fiscale”. Ciò si deve in parte al fatto che il fisco non è più al centro dell’armamentario retorico leghista, soppiantato dai temi di successo della sicurezza e dell’immigrazione. Ma in parte anche al fatto che affrontare sul serio la questione redistributiva appariva troppo rischioso agli occhi di un Umberto Bossi che dopo tanti anni ha bisogno di brandire un qualche trofeo di fronte al proprio elettorato, anche a costo che si tratti di un trofeo svuotato.

Il fatto che la Lega non abbia avuto il coraggio di porre effettivamente il problema di una ridefinizione del sistema di solidarietà territoriale, non significa che tale argomento non costituisca un’urgenza per il paese – per il Nord che si fa carico degli aiuti economici e per il Sud che ha patito in questi anni i devastanti effetti di dispositivi assistenziali che hanno solo disincentivato comportamento virtuosi. Certo nessuno si illude che il trasferimento di risorse tra le due parti del paese possa venire meno da un giorno all’altro, ma è legittimo chiedersi se esso debba essere indefinito nel tempo e se debba essere avulso da qualsiasi meccanismo di verifica sul fatto se i fondi in questione siano effettivamente utilizzati come volano di sviluppo. E se esistano sistemi che consentano di impostare il sostegno alle parti meno avanzate del paese in termini più efficienti e meno distorsivi.

Un modello interessante, da questo punto di vista, è quello discusso da Piercamillo Falasca e da Carlo Lottieri nel libro “Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno”. Lottieri e Falasca spiegano come il problema dell’azzardo morale, da sempre legato alle politiche assistenziali, possa essere mitigato passando da un sistema perequativo “verticale”, dove è lo Stato che decide ed effettua la redistribuzione, ad un sistema “orizzontale”, dove sono le stesse regioni a negoziare il trasferimento di risorse – sul modello di quanto avviene a livello di Unione Europea. Su un tale sistema potrebbe fondarsi un nuovo patto nazionale tra Nord e Sud, non statico, ma necessariamente dinamico e basato sulla riscoperta del carattere contrattuale delle relazioni politiche.

Su tutti questi capitoli, cruciali per il nostro futuro, è bene che a riempire di contenuti la parola federalismo non sia più solo il partito di Bossi.


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