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Aiuti allo sviluppo, spendere meno per spendere meglio

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– Il Copenhagen Consensus è un think tank di economisti diretto da Bjørn Lomborg (ne fanno parte quattro premi Nobel) che si prefigge di fare un’analisi costi-benefici delle politiche per lo sviluppo. Come recita la mission,

“l’idea è semplice, ma spesso trascurata: quando le risorse finanziarie sono limitate, è necessario fissare delle priorità. Ogni giorno, politici e imprenditori a tutti i livelli stabiliscono delle priorità, investendo in un progetto piuttosto che in un altro. Tuttavia molte decisioni vitali, anziché essere basate su fatti, calcoli ed evidenze scientifiche si fondano su motivazioni di carattere politico o addirittura sulle opportunità di ottenere una buona copertura mediatica”.

Negli ultimi dieci anni, il mondo sviluppato ha aumentato il suo contributo per lo sviluppo di 49 miliardi di dollari, arrivando a spendere ogni anno circa 130 miliardi di dollari. La prima domanda che sorge spontanea è perché, di fronte ad investimenti tanto significativi, l’idea di andare a vedere come sono stati spesi quei soldi, per tentare di spendere meglio in futuro, sia venuta solo ora. In ogni caso, i risultati del lavoro del panel sono oggi disponibili in 12 policy paper distinti, e rappresentano un’ottima lettura per tutti coloro che vogliono avvicinarsi al tema degli aiuti allo sviluppo badando più al sodo che alle apparenze. In poche parole, è inutile che li facciate leggere a Bob Geldof.

Il capitolo che riguarda fame e malnutrizione si concentra sull’importanza di incrementare significativamente la produzione agricola globale, essenzialmente attraverso lo sviluppo delle biotecnologie e una maggiore accessibilità ai fertilizzanti di sintesi. Un’accessibilità che non andrebbe garantita tanto intervenendo sui prezzi, come a molti governi piace fare, cosa che scoraggerebbe la produzione stessa dei fertilizzanti e la loro diffusione, quanto casomai attraverso la rottura delle posizioni dominanti sul mercato da parte dei pochi paesi produttori, e attraverso investimenti per incrementarne la produzione anche e soprattutto nei paesi emergenti.

Il fatto che aumentare la produzione agricola sia cosa utile per combattere le crisi alimentari è concetto abbastanza elementare, ma finisce spesso per soccombere di fronte ad un’altra delle sfide che il panel ha preso in esame, quella per la difesa della biodiversità. Eppure, anche in questo caso, l’intensificazione agricola è indicata come la strada maestra da seguire. Una soluzione controintuitiva, ma non troppo.

Se pensiamo al ritmo attraverso il quale la popolazione mondiale sta crescendo, per dar da mangiare a tutti abbiamo due possibilità: o aumentiamo la superficie coltivabile, sottraendola ad ecosistemi naturali, o cerchiamo di aumentare la produttività unitaria di un ettaro di terreno. Tertium non datur, e messa in questi termini non è difficile intuire quale delle due strade sia quella più rispettosa per l’ambiente. E a guardar bene, le evidenze storiche dovrebbero confortarci: secondo uno studio di alcuni anni fa, la superficie forestale della Francia ha ricominciato ad aumentare a partire dalla seconda metà dell’800, proprio in concomitanza con l’inizio dello sviluppo di nuove tecniche agronomiche intensive che hanno favorito l’abbandono dei terreni marginali meno produttivi. E tutto ciò nonostante il coincidente significativo impennarsi della curva demografica.

Un ulteriore capitolo, e qui mi fermo anche se ce ne sarebbero altri nove, è dedicato all’importanza dei negoziati multilaterali sul commercio mondiale, della rimozione o riduzione delle barriere commerciali, dei sussidi ai produttori e di ogni pratica distorsiva del mercato. Troppo tardi, verrebbe da dire, dato che è proprio di questi giorni la notizia, catastrofica, del fallimento definitivo del Doha Round, l’ultimo decennale giro di negoziati multilaterali del WTO.

Restano gli accordi preferenziali, considerati anche dal Copenhagen Consensus come una sorta di “piano B”, attraverso i quali però le economie più forti riescono con più facilità a far valere le loro posizioni dominanti.


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